Vittorio Sgarbi

da Roberto Giavarini, a cura di Vittorio Sgarbi, EA editore, 2017 

Segnano un chiaro cambio di direzione i lavori di Roberto Giavarini, pittore lombardo formatosi sull’esempio Mario Donizetti, che delle tecniche tradizionali e della figurazione secondo natura aveva fatto motivo di intimo, convinto di culto.

Non che Giavarini abbia ripudiato gli antichi interessi che lo avevano portato, per esempio, a dedicare particolare cura nella preparazione delle tempere a uovo, con la perizia e il piacere per la materia rara dell’alchimista, o per le camottature con cui avvolgeva di tela le tavole lignee, operazioni che facevano quasi da rituale propiziatorio per evocare tutta la capacità di concentrazione, tutta l’attenzione minuziosa, oggettiva e didattica, ma sentimentalmente coinvolta, con cui rendeva il soggetto di fauna, il preferito nella produzione precedente dell’artista, sulla falsariga dell’illustrazione scientifica di una volta.

È che se lo scopo di qualunque tecnica, di qualunque metodo di rappresentazione, deve essere il miglioramento dell’intento mimetico, fino a rendere l’arte più credibile della stessa realtà che si vuole riprodurre, non c’è mai un punto di approdo definitivo, va sempre cercata la strada che risulti più soddisfacente. Così, Giavarini ha imboccato un nuovo percorso che, per quanto non in contraddizione con quello prima affrontato, anzi, in sostanziale continuità con esso, verifica nuovi modi di esprimersi, nelle suggestioni visuali come nei mezzi con cui tradurli in immagini, aspetti che, come si sarà capito, nell’artista vanno volentieri di pari passo. Su lastre, si stagliano raffinati oggetti di vetro o porcellana che miracolosi equilibri preservano da frantumazioni altrimenti inevitabili, talvolta inframmezzati da figure femminili scoperte, come sibille che svelano qualcosa, solo qualcosa dei loro arcani.

Non c’è uno spazio stabile, né un punto di vista certo, grazie all’impiego di mordenti chimici e solchi di bulino, eredi delle antiche tecniche grafiche, che destabilizzano, decorando l’apparentemente indecorabile – il vuoto – e trattenendo una luce capace di riflettere diversamente a seconda di dove poggia. È il fascino visionario dello spaesamento il nuovo, grande attore in scena.